
Certamente bisogna trovare il modo di arrestare questo stillicidio di morti tra i medici, 41 al 26 marzo. E non basta perché il numero di contagi tra il personale sanitario, sempre fino a ieri, era salito a 6.205, vale a dire più del 9% dei casi totali. Questi numeri sono impressionanti e hanno un solo significato: il personale sanitario non ha sufficiente protezione ed è oggetto di poca prevenzione.
Riguardo alla “scarsa protezione” non è un mistero che manchino i presidi e che ce ne siano comunque troppo pochi. Il presidente dei medici Fnomceo (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri), Filippo Anelli, ha più volte dichiarato: “Se l’elenco dei medici deceduti continua ad allungarsi, ciò è dovuto innanzitutto al fatto che continuano a mancare i dispositivi di protezione individuali (Dpi); come presidente Fnomceo continuo a ricevere segnalazioni in tal senso ogni giorno dal Nord al Sud dell’Italia”. Quindi a oggi i medici muoiono per mancanza di sufficienti dispositivi di protezione.
Rispetto invece alla “scarsa prevenzione”, già all’inizio dell’epidemia il comitato tecnico scientifico (CTS) aveva consigliato “di estendere l’uso dei tamponi a tutto il personale sanitario più esposto e dunque a rischio, anche senza la presenza di sintomi. A parte il Veneto, tale norma, viene continuamente disattesa in quasi tutte le altre Regioni. Ma a onor del vero ciò accade perché il tampone, come fa notare il Presidente della Lombardia Attilio Fontana, secondo le disposizioni ministeriali viene riservato alle sole persone con sintomatologia.
Per questo i medici spesso rimangono sul posto di lavoro non sapendo di essere infetti. Ciò che è più grave è che devono rimanerci anche quando sono presenti sintomi lievi. Medici e infermieri possono assentarsi solo in presenza di febbre. Anche in questi casi, però, i tamponi non vengono eseguiti in modo rapido: invece di essere effettuati direttamente in ospedale, e quindi sul luogo di lavoro, questi vengono fatti a casa, dove il personale della ASL deve recarsi aggiungendo così tempo ulteriore a quello già necessario per ottenere l’esito dell’esame. Nel frattempo, il personale sanitario sospetto positivo, così come per esempio i loro famigliari, sempre in attesa dei risultati, corrono un ulteriore rischio di infettarsi e infettare a loro volta altre persone. Insomma, in questo modo, medici e paramedici non solo non lavorano in sicurezza ma rischiano anche di ricoverarsi quando ormai è tardi e di diventare a loro volta strumenti di contagio. Ecco perché non bisogna risparmiare sui tamponi e, sull’esempio del Veneto, eseguirli proprio a tutti i soggetti a rischio, specialmente il personale medico, paramedico e gli operatori sanitari (OS).