
Esiste una forma di artrite reumatoide più aggressiva e a rapida evoluzione, sottovalutata, nonostante i numeri, ma che peggiora seriamente la qualità di vita dei pazienti. Chi ne soffre paga un prezzo altissimo per disabilità e impatto sulla vita di tutti i giorni. L’artrite reumatoide colpisce 1 persona ogni 200, oltre 300mila soggetti in Italia, per il 75% dei casi di sesso femminile e nel pieno della vita attiva. Patologia infiammatoria di origine autoimmune ad andamento invalidante e a carattere sistemico, è caratterizzata da deformazione e dolore che possono portare fino alla perdita della funzionalità articolare. Ciò comporta impedimenti concreti nella vita di tutti i giorni: dal lavoro al tempo libero, dalla cura personale alle attività domestiche. La malattia genera costi umani e sociali particolarmente gravosi: si calcola che in Italia oltre il 25% dei pazienti sia parzialmente limitato nel tempo libero e nel lavoro e il 4% sia affetto da disabilità completa.
“L’artrite reumatoide è una malattia multiforme in quanto può variare per modalità di esordio, decorso clinico, caratteristiche sieroimmunologiche e risposta ai trattamenti”, dichiara Luigi Sinigaglia, Direttore S.C. Reumatologia DH ASST Gaetano Pini, Centro Specialistico Ortopedico Traumatologico Pini-CTO di Milano. “Rispetto ad altre forme di artrite, in quella precoce e aggressiva l’infiammazione a livello della membrana sinoviale, che riveste l’interno di tutte le articolazioni mobili del nostro organismo, comporta un precoce danno anatomico agli altri tessuti articolari, soprattutto alla cartilagine e all’osso subcondrale ma anche a tendini e legamenti, arrivando, nel giro di un paio di anni, alla completa abolizione della funzionalità del distretto articolare colpito. Pertanto, questa forma di malattia, che interessa il 40% dei pazienti all’esordio, si associa a una maggiore disabilità e a una più alta mortalità per manifestazioni extra articolari, in primis per patologia cardiovascolare che colpisce soprattutto le donne tra i 40 e i 50 anni, con una riduzione della sopravvivenza dai 3 ai 10 anni. Questi dati – commenta Sinigaglia – ci aiutano a comprendere quanto la diagnosi precoce possa cambiare le sorti dei pazienti.”
“La realtà ci descrive all’opposto ritardi di 7, 12 mesi e più, tra diagnosi confondenti e pazienti che si curano per mesi con farmaci sintomatici”, afferma Antonella Celano, Presidente APMAR. “Da un lato c’è la difficoltà per la persona a decifrare i segnali del corpo e interpretare il dolore e gli altri campanelli d’allarme (gonfiore, tumefazione, intorpidimento); dall’altro, c’è la difficoltà per il medico di medicina generale, primo interlocutore del paziente, a indirizzarlo tempestivamente al reumatologo. Questo è dovuto anche alla mancanza, in molte aree del Paese, di una rete assistenziale efficace e di PDTA che garantiscano un accesso rapido alla visita specialistica. Al contrario, riuscire ad intercettare in tempo la malattia, con le cure oggi disponibili, vuol dire non rischiare l’invalidità e poter vivere una vita ‘normale’.”
Alla luce della variabilità fenotipica dell’artrite reumatoide, gli esperti ritengono sia fondamentale rilevare in tempi rapidi alcuni marcatori specifici che consentono di distinguere all’esordio le forme a evoluzione potenzialmente più grave e identificare l’approccio terapeutico appropriato. “È il caso – spiega Sinigaglia – del Fattore Reumatoide e degli ACPA (anticorpi anti-peptide ciclico citrullinato) presenti frequentemente nel siero di pazienti affetti da artrite reumatoide, che, quando si associano ad altri fattori prognostici negativi, sono in grado di predire la possibilità di rapida progressione della malattia secondo un gradiente di rischio che raggiunge l’80%. In questi casi è determinante una strategia terapeutica tempestiva in quanto coloro che iniziano una terapia adeguata entro i primi 3 mesi dall’esordio evidenziano una migliore prognosi in termini di danno radiologico e tasso di remissione.”