La diatriba dei fattori di rischio e/o di protezione della malattia di Parkinson è da tempo oggetto di studio anche da parte dei neurologi della Società Italiana di Neurologia SIN. “In particolare, il consumo di caffè sembrerebbe avere carattere protettivo”, dichiara il presidente, prof. Alfredo Berardelli, de La Sapienza di Roma, tra le Università che hanno preso parte a un recente studio coordinato da uno dei pionieri italiani in questo tipo di ricerche, Giovanni Defazio, dell’Università di Cagliari. Lo studio – che ha visto coinvolte anche le Università di Bari, Catania e Verona, oltre all’Albert Einstein College of Medicine di New York, al dipartimento di Neurologia dell’ASST Pavia-Voghera e all’IRCCS Neuromed di Pozzilli – è stato pubblicato su Parkinson’s & Related Disorders e ha rilevato come un pregresso consumo moderato di caffè ritardi l’età d’esordio della malattia, inducendo comunque una sintomatologia meno grave. Simile effetto benefico anche da una moderata attività fisica quotidiana precedente all’esordio della malattia, con un miglioramento soprattutto sulla sintomatologia non motoria come dolore, incontinenza, ipotensione ortostatica, stipsi, disturbi del sonno, affaticamento, ansia, depressione.
Anche un altro studio italiano pubblicato 2 anni fa su Neurobiology of Disease aveva individuato fra 11 fattori di rischio e/o protettivi potenzialmente in grado di influenzare lo sviluppo della malattia di Parkinson la caffeina e l’attività fisica come capaci di migliorarne la progressione se presenti prima dell’esordio dei sintomi.
“Un importante risultato di questa serie di studi è che la distribuzione dei vari possibili fattori di rischio individuati (ad es. familiarità per malattia di Parkinson, dispepsia, etc.) non è uniforme, ma questi possono variamente presentarsi, individuando così vari sottotipi eziologici”, spiega Defazio. “Ciò supporta la possibilità (spesso ventilata negli ultimi anni) che non esista una sola, ma diverse malattie di Parkinson con diverse eziologie e probabilmente diverse evoluzioni, ognuna delle quali risponde a diversi fattori di rischio e/o di protezione.”
Secondo Ronald Postuma, dell’Università di Montreal, il caffè non sarebbe solo un fattore protettivo sullo sviluppo della malattia, ma agirebbe addirittura anche come una sorta di “farmaco”, potenzialmente in grado di ritardarne l’evoluzione una volta che i sintomi si sono manifestati. “Siamo ancora nell’ambito delle forti probabilità”, commenta Defazio. “Dalle nostre ricerche emerge una plausibilità biologica evidente dal punto di vista epidemiologico secondo cui alcuni fattori, come ad esempio i pesticidi, sono a rischio, mentre altri, come l’attività fisica o il caffè, sono protettivi, ma sembrano esserlo anche il tè, la vitamina E o i FANS. Va ancora capito come indirizzare l’azione di ognuno di questi fattori per una migliore riduzione del rischio: già altri Autori hanno visto, ad esempio, come non tutti i dosaggi di caffeina siano efficaci allo stesso modo. Occorre soprattutto attenzione a non ricavare da questi studi l’impressione che il caffè sia una sorta di panacea neuro-protettiva, perché c’è ancora molto da studiare. Si può dire – conclude – che il caffè non solo può prevenire la malattia (come indicano nostri studi precedenti), ma anche ritardarne l’età di esordio e, probabilmente, indurre anche una più lenta evoluzione della sintomatologia motoria.”