Attualmente l’Epatite Delta o D rappresenta una delle più gravi forme di epatite virale; nel mondo sono circa 15-20 milioni i soggetti colpiti e le attuali terapie con peginterferone-alfa portano all’eradicazione virale soltanto nel 25% dei casi, il che evidenzia la necessità di nuovi trattamenti che siano mirati verso il ciclo vitale del virus. Secondo un articolo scientifico pubblicato sulla rivista Revue Médicale Suisse 2016, l’agente responsabile di questa infezione – ossia l’Hdv – richiede la presenza dell’Hbv per completare il suo ciclo vitale e questo ruolo potrebbe essere svolto da molecole come il Myrcludex-B, che inibisce l’ingresso del virus nell’epatocita, oppure il lonafernib, che previene l’assemblaggio della particella virale, o ancora dal cosiddetto REP 2139, che tramite meccanismi ancora poco chiari impedisce l’uscita del virus dall’epatocita.
L’Epatite D è una malattia causata dal virus Delta (o hepatitis D virus, HDV) il quale è un patogeno a RNA difettivo, in grado di replicarsi solamente in presenza del virus dell’epatite B (HBV) oppure per una sovrainfezione di HDV in un portatore cronico di HBV. Le modalità di trasmissione sono le stesse dell’epatite B, ossia mediante contatto con sangue o fluidi corporei, quali sperma e secrezioni vaginali di una persona infetta. In genere il contagio avviene a causa di rapporti sessuali non protetti, condivisione di aghi e siringhe per l’inoculo di droghe e uso promiscuo di oggetti per la cura personale (spazzolino da denti, forbicine e rasoi); è possibile anche la trasmissione materno-fetale.