
L’ospedale “non dialoga” con il territorio, e solo 3 over65 ogni 100 abitanti possono beneficiare delle cure domiciliari. Spesso si tratta di persone non autosufficienti che, nonostante il buon decorso post-operatorio e le buone condizioni a 5-6 giorni dall’intervento subìto, è difficile riuscire a dimettere e far rientrare a casa. Per esperienza diretta di chi scrive, le motivazioni sono spesso: “I figli lavorano”; “la moglie non è autosufficiente”, oppure “sono un nipote e non posso più prendermi cura dello zio”, o ancora “come possiamo accudirlo? Avrebbe bisogno di fisioterapia e non possiamo permetterci le badanti…”. Il risultato è che, spesso, tramite l’assistente sociale inizia la ricerca di un posto in qualche RSA, periodo durante il quale trascorrono così anche settimane ulteriori di ricovero. È il fenomeno del cosiddetto bed-blocker, per il quale non si riesce a dimettere dall’ospedale perché i pazienti non hanno assistenza a casa. Le conseguenze non sono trascurabili: oltre ai maggiori costi, vi è soprattutto una minore disponibilità di posti letto per i nuovi ammalati, che spesso devono anche essere operati in elezione oppure stazionano nei pronto soccorso.
“L’Italia è agli ultimi posti in Europa per numero di anziani che beneficiano di cure a casa, con meno di 3over-65 su 100 (il 2,7%) che ricevono assistenza domiciliare (ADI), a fronte di una media europea che non va sotto il 7% e con punte fino al 20%”, dichiara Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva, commentando i dati diffusi dalla Società Scientifica dei Medici Internisti Fadoi, secondo i quali circa 1milione di anziani rimarrebbe nei reparti degli ospedali in media 1 settimana in più rispetto alla data di dimissione stabilita dal medico.
Per chi gestisce la Sanità a livello regionale dovrebbe essere chiaro che il fenomeno del bed-blocker è reale: “La messa in sicurezza degli anziani dimessi dall’ospedale tocca da vicino la capacità del nostro Servizio Sanitario di prendersi cura delle persone più fragili, in particolare di coloro che sono privi di un supporto familiare”, afferma Bernabei. “Tuttavia, il rientro in comunità continua a rappresentare un nervo scoperto dell’assistenza agli anziani, per via della carenza di servizi di assistenza domiciliare, Rsa e hospice, e della mancanza di dialogo tra ospedale e territorio. Le risorse economiche stanziate dal PNRR per potenziare la dotazione dei servizi di assistenza domiciliare, puntando a raggiungere il 10% degli over65 nei prossimi 4 anni, e per la realizzazione degli Ospedali di Comunità con valenza di strutture post-acuzie, rispondono all’esigenza di costruire un ponte tra ospedale e casa, e dare finalmente un’assistenza congrua ai nostri anziani. Ma questo obiettivo – prosegue – non può essere pienamente raggiungibile senza un modello organizzativo che raccordi medici di medicina generale, assistenza domiciliare, ospedale, RSA, post-acuzie e cure palliative, vale a dire tutti gli snodi della cosiddetta long-term care. Alcune esperienze virtuose ci dicono che più l’ospedale è in grado di comunicare in tempo reale con la rete territoriale, di conoscerne il ventaglio di servizi offerti e di prendere parte alla definizione del bisogno assistenziale sin da quando il paziente entra in Pronto Soccorso o in ospedale, tanto migliore – conclude – sarà la presa in carico a lungo termine dell’anziano e della sua famiglia.”