Giugno Mese dell’Alzheimer. Il punto della SIN sulla ricerca

In occasione di Giugno Mese dell’Alzheimer, iniziativa promossa dall’Alzheimer’s Association USA e dalle Associazioni pazienti, la Società Italiana di Neurologia fa il punto sulle ultime novità della malattia che, solo in Italia, colpisce circa 600mila persone. Ciò che sta cambiando è il crescere delle evidenze scientifiche a favore della possibilità di individuare i soggetti a rischio tramite marcatori plasmatici più facilmente accessibili tramite semplici prelievi ematici. Alcuni di questi, come le proteine fosfo-Tau, GFAP e neurogranina, possono indicare se l’accumulo di amiloide nel cervello rappresenta solo una soglia di rischio o se invece indica già la presenza di malattia. La questione è di elevata importanza perché diversi studiosi concordano sul fatto che la prevenzione deve passare attraverso il controllo di tali parametri in associazione a quello dei noti fattori di rischio cardiovascolare e alle norme di vita con attività fisica costante, controllo del peso e un’alimentazione sana a base di legumi, frutta fresca e secca, pesce, limitando invece carni rosse e grassi animali.

“Nelle ultime settimane ha suscitato interesse l’osservazione riportata su Nature Medicine da un gruppo di ricercatori internazionali secondo cui un’alterazione genetica casuale verificatasi a carico della proteina cerebrale reelina, che normalmente regola le funzioni neuronali, ha determinato una cosiddetta gain-of-function, cioè un guadagno di funzione”, dichiara il prof. Alessandro Padovani, direttore Clinica Neurologica Università degli Studi di Brescia. “La variazione genetica, a cui è stata data la sigla RELN-COLBOS, ha portato infatti i 2 soggetti – 1 uomo e 1 donna – che l’hanno avuta a una trasformazione della loro reelina in un baluardo allo sviluppo della malattia di Alzheimer.” Nonostante presentassero tutti i marker plasmatici e di imaging di malattia, nessuno dei 2 pazienti si è ammalato, resistendo a lungo allo sviluppo della condizione. La scoperta, sottolineano gli esperti SIN, apre scenari interessanti per eventuali terapie geniche che permettano di stimolare la produzione di reelina protettiva nei pazienti a rischio. Per quanto riguarda le terapie farmacologiche, la Food & Drug Administration americana ha approvato l’impiego di un nuovo farmaco monoclonale, il Lecanemab. Nei prossimi mesi è atteso il pronunciamento dell’Agenzia Europea per il Farmaco Ema.

“I risultati degli studi condotti con farmaci anti-amiloide indicano di fatto che è possibile modificare il decorso della malattia, anche se non in modo eguale in tutti i malati”, afferma il prof. Alfredo Berardelli, presidente SIN. “Diversi pazienti sembrano rispondere in modo assai favorevole; altri, invece, in modo poco favorevole, mentre altri ancora riportano eventi avversi, talora anche gravi. A tal riguardo, sono in corso anche nel nostro Paese indagini per comprendere chi sia a rischio di effetti collaterali e come prevedere in anticipo chi è a rischio di esserne colpito nel corso del trattamento.”

Dopo numerosi studi sulla proteina beta-amiloide, una ricerca ha recentemente dimostrato che è possibile ridurre la neurodegenerazione nei pazienti con malattia di Alzheimer agendo con farmaci che bloccano l’espressione della proteina Tau. Le indagini necessitano di conferma ma supportano precedenti studi a favore del ruolo fondamentale che la proteina Tau svolge al fianco della beta-amiloide nello sviluppo della malattia. Infine, sono sempre più numerosi gli studi sui trattamenti non farmacologici mediante l’utilizzo di correnti elettriche transcraniche o stimolazioni magnetiche transcraniche. I dati sembrano indicare non solo un effetto positivo sui sintomi cognitivi, ma anche effetti biologici protettivi che riducono l’azione tossica dell’amiloide.

L’esordio classico della malattia di Alzheimer è rappresentato dalla comparsa insidiosa e progressiva di deficit della capacità di formare nuovi ricordi (memoria di fissazione o anterograda), a fronte di una relativamente conservata capacità di rievocare memorie più o meno remote. Successivamente, nel giro di qualche anno, tendono a comparire difficoltà di orientamento temporale (ad esempio nel riferire la data e l’ora del giorno) e spaziale, di comprensione e recupero vocaboli comuni, di riconoscimento di persone note e di utilizzo degli oggetti, mentre il deficit mnesico diviene progressivamente sempre più severo. Nelle fasi avanzate il paziente può non riuscire a distinguere il giorno dalla notte; riconoscere il proprio domicilio, i familiari o addirittura la propria immagine allo specchio; esprimersi verbalmente in maniera corretta né a svolgere movimenti più o meno complessi. Tutto ciò impatta naturalmente sulla sua capacità di occuparsi della casa, vestirsi e curare l’igiene personale, cucinare, utilizzare il denaro, uscire di casa e spostarsi da solo, assumere correttamente i farmaci, comunicare con gli altri. Inoltre, anche il movimento e la deambulazione divengono sempre più difficoltosi e incerti. L’aspettativa di vita dalla diagnosi di demenza di Alzheimer è in media di 10 anni circa.