Come testimoniato da Giangi Milesi, presidente Confederazione Parkinson Italia, i malati di Parkinson soffrono di problemi motori che rendono difficili semplici gesti di vita quotidiana ma anche di disturbi collaterali non strettamente fisici ma ugualmente rilevanti. Confinamento, distanze insuperabili, solitudine, mancanza di attività fisica si sono aggiunti alle mancate visite di familiari e amici generando stati ansiosi, depressione e decadimento cognitivo. Si aggiunga che il lockdown ha reso problematica l’aderenza a molte terapie farmacologiche, bloccato i supporti infermieristici, rinviato visite neurologiche, sospeso preziose sedute di fisioterapia. Una situazione di emergenza che i supporti tecnologici (consulenza telefonica, videochiamate, videoincontri) hanno parzialmente alleggerito ma che ha fatto emergere in modo drammatico le fragilità e le “dipendenze” di questi pazienti, connotando la malattia di Parkinson come un grande problema medico e sociale.
In termini clinici, la malattia di Parkinson (da James Parkinson, farmacista chirurgo londinese del XIX secolo che per primo ne descrisse le caratteristiche) fa parte di un gruppo di patologie definite “Disordini del Movimento”. È presente in tutto il mondo, colpisce tutti i gruppi etnici ed è la quarta più comune patologia neurologica dopo l’emicrania, l’ictus e l’epilessia. La sua insorgenza va ricondotta alla progressiva morte dei neuroni situati nella “sostanza nera”, una piccola area del cervello che, attraverso la dopamina, controlla i movimenti del corpo. La perdita di oltre il 60% di queste cellule genera la patologia che interessa di norma una metà del corpo e si manifesta con sintomi quali tremori involontari di alcuni organi (una mano, un piede); rigidità muscolare che rende difficili o impossibili molti movimenti; bradicinesia, ovvero il rallentamento progressivo delle attività motorie; acinesia, cioè difficoltà ad iniziare un movimento; instabilità posturale e conseguente perdita dell’equilibrio; congelamento dell’andatura, anche noto come freezing of gait, una situazione improvvisa e transitoria (della durata di pochi secondi) nella quale il paziente è incapace di iniziare o proseguire qualsiasi movimento. Ai sintomi che riguardano l’area motoria se ne associano anche altri, non sempre identificati, quali – ad esempio – postura curva, voce flebile, difficoltà di deglutizione, stipsi, disturbi urinari, pressione arteriosa.
Del problema e delle sue implicazioni personali, mediche e sociali si parlerà domenica 11 aprile, in occasione della Giornata Mondiale del Parkinson. Decisive saranno anche le valutazioni sull’impatto che la pandemia da COVID-19 ha avuto e continua ad avere sui pazienti parkinsoniani, le cui condizioni sono notevolmente peggiorate sia dal punto di vista fisico che psicologico. Ad oggi non esistono cure specifiche per il Parkinson, che viene affrontato con un insieme di strumenti finalizzati a migliorare i sintomi: monitoraggio, trattamenti farmacologici, interventi chirurgici, supporti psico-sociali, esercizio fisico, dieta bilanciata possono aiutare a convivere con la malattia. Le terapie farmacologiche puntano sul mix di farmaci, prescritti secondo vari schemi terapeutici e destinati a controllare o migliorare i sintomi anche per lunghi periodi. Il farmaco maggiormente prescritto è la levodopa (L-DOPA, precursore della dopamina), non sempre facilmente reperibile ma che può determinare il miglioramento della sintomatologia parkinsoniana per un periodo oscillante fra 2 e 10 anni; a questo si possono aggiungere gli inibitori delle monoamino ossidasi B (MAO-B); gli anticolinergici per il controllo del tremore; l’amantadina impiegata nelle forme iniziali oppure, ancora, gli enzimi deputati a degradare la levodopa e che vengono impiegati per renderla più tollerabile.
È però sul fronte della neurochirurgia funzionale che la scienza ha fatto i passi più significativi. Questo ramo della chirurgia si propone infatti di identificare un “bersaglio” nel cervello, un centro nervoso ritenuto responsabile dei sintomi, e di raggiungerlo mediante strumenti in grado di modificarne l’attività modulandone il funzionamento e ottenendo, così, un miglioramento complessivo dello stato clinico del paziente. Fra gli interventi più innovativi va segnalata la Stimolazione Cerebrale Profonda (deep brain stimulation DBS), oggi la procedura chirurgica più avanzata per ridurre i sintomi legati ai disturbi del movimento (Parkinson, distonia, tremore essenziale). La DBS prevede l’introduzione nel cervello di un piccolissimo elettrodo, collegato a un generatore d’impulsi impiantato sottocute, nella parte anteriore e superiore del torace. Gli impulsi elettrici arrivano a stimolare la specifica area del cervello e favoriscono una migliore trasmissione dei segnali dal cervello all’intero organismo, riducendo buona parte dei sintomi.
Boston Scientific ha sviluppato ricerche e studi clinici nel settore della neurostimolazione ed è uno dei maggiori operatori internazionali nel settore. La procedura DBS di Boston Scientific prevede un sistema direzionale, costituito dal neurostimolatore Vercise™ Gevia™ e dal catetere che seleziona in modo estremamente accurato il punto verso cui indirizzare la corrente di stimolazione. A ulteriore tutela del paziente, la procedura prevede anche il sistema Guide XT, che riduce in misura significativa gli effetti collaterali dell’intervento supportando neurochirurghi e neurologi nell’individuazione del bersaglio ottimale e simulando gli effetti generati dalla stimolazione per verificare l’interazione con la zona da trattare. I dispositivi impiantabili utilizzati per la Deep Brain Stimulation sono dotati di batterie tradizionali ad esaurimento (durata indicativa di 5 anni, dopo di che devono essere sostituite) oppure di batterie ricaricabili, con previsione di durata fino a 25 anni, che possono essere ricaricate direttamente dal paziente (tramite una fascia appoggiata sulla pelle) senza sottoporsi a interventi di sostituzione del dispositivo, con i possibili rischi di infezione o danneggiamento del sistema. l miglioramenti dei sintomi sono riscontrabili già nei primi giorni successivi all’intervento DBS, ma uno degli aspetti clinicamente più rilevanti è la comprovata riduzione di farmaci dopaminergici dal 50 all’80%, con una percentuale di circa il 15-20% di pazienti che non necessita più di alcuna terapia farmacologica.
Nonostante l’efficacia terapeutica della Stimolazione Cerebrale Profonda sia ampiamente riconosciuta, l’accesso dei pazienti a questa procedura è tuttora limitato, sia per la mancanza di un “network clinico” che favorisca il necessario coordinamento tra neurologi e neurochirurghi sia per le barriere economiche legate soprattutto all’eterogeneità del sistema dei rimborsi a livello regionale, in alcune Regioni ampiamente inadeguate e tali da frenare il ricorso a interventi evoluti quali la DBS che sarebbero invece in grado di giovare alla qualità di vita dei pazienti affetti da Parkinson.