Momelotinib, nuova terapia per la mielofibrosi approvata dall’Aifa

La mielofibrosi è un raro tumore del sangue che in Italia colpisce 350 persone all’anno con un’incidenza maggiore tra i 60 e i 70 anni: solo nel 15% ne ha meno di 55. Spesso è asintomatico. In alcuni casi il paziente lamenta stanchezza, un po’ di inappetenza, dolori muscolari e articolari, qualche linea di febbre. E la bilancia dice che è dimagrito. La prima cosa a cui si pensa è l’influenza, o può capitare che si dia la colpa all’età. Oggi è disponibile una nuova terapia: momelotinib è stato recentemente approvato anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco Aifa. “Momelotinib è un inibitore orale di JAK-1/JAK-2 e del recettore dell’activina A di tipo 1 (ACVR1) ed è il primo medicinale autorizzato ‘per il trattamento della splenomegalia o dei sintomi correlati alla malattia in pazienti adulti con anemia da moderata a severa che sono affetti da mielofibrosi primaria, mielofibrosi post-policitemia vera o mielofibrosi post-trombocitemia essenziale e che sono naïve agli inibitori della chinasi Janus (JAK) o già trattati con ruxolitinib’, come recita il parere positivo degli enti regolatori”, spiega il prof. Francesco Passamonti, ordinario di Ematologia, Università Statale di Milano.

CHE COSA PROVOCA LA MIELOFIRBOSI E PERCHÉ CI SI AMMALA

“Di mezzo ci sono i geni e alcune loro mutazioni”, dichiara il prof. Alessandro Vannucchi, ordinario di Ematologia, Università di Firenze. “3 in particolare: la principale, che accomuna oltre la metà dei pazienti è la mutazione V617F di JAK-2, un gene importante per il controllo della produzione delle cellule del sangue che, se mutato, risulta associato a una loro proliferazione incontrollata; la seconda per frequenza è quella del gene CALR, presente nel 25-35% dei casi e alla base della produzione di una proteina, la calreticulina, coinvolta nella regolazione di processi come la proliferazione, la crescita, la migrazione e la morte cellulare; l’ultima mutazione è nel gene MPL, coinvolto invece nella produzione di piastrine, riscontrata nel 3-5% dei pazienti.”

La mielofibrosi determina la graduale comparsa nel midollo osseo di un tessuto fibroso che ne sovverte la struttura. In questo modo ne viene modificata la funzionalità, con la conseguente alterazione della produzione delle cellule del sangue. “La mielofibrosi può peggiorare più o meno lentamente nell’arco di diversi anni con modalità variabili a seconda del paziente”, afferma ancora Passamonti. “In genere la fase iniziale consiste in un danno alla struttura del midollo osseo. È la fase precoce, o pre-fibrotica, perché non è presente ancora la fibrosi del midollo osseo. Nella fase avanzata compare la fibrosi midollare e si evidenzia una fuoriuscita di cellule staminali immature dal midollo osseo. Queste, attraverso il sangue, raggiungono la milza e il fegato, dove si accumulano. Solitamente, quando la malattia si manifesta, sono già presenti le alterazioni tipiche: oltre alla fibrosi, tra le altre, l’anemia e l’ingrossamento della milza. In alcuni casi (10-15 su 100) la mielofibrosi può evolvere in una patologia più severa: la leucemia mieloide acuta.”

La quotidianità del paziente non è delle più semplici. Negli stadi più avanzati, la mielofibrosi ha un forte impatto sulla qualità di vita: “La situazione complessiva può essere aggravata dal fatto che colpisce per lo più gli anziani, persone fragili, che assumono farmaci per altri disturbi cronici e che, rispetto alla popolazione generale, hanno un rischio maggiore di malattie a carico del cuore e dei vasi sanguigni”, dichiara Antonella Barone, presidente dell’Associazione Italiana Pazienti con Malattie Mieloproliferativa AIPAMM. Circa il 40% dei pazienti presenta un’anemia da moderata a grave già al momento della diagnosi, ma si stima che quasi tutti ne andranno incontro nel corso del tempo. Questa condizione richiede cure di supporto aggiuntive, in primis le trasfusioni. E, purtroppo, i pazienti che dipendono dalle trasfusioni hanno una prognosi sfavorevole e una sopravvivenza ridotta. “Nei casi in cui si riscontri una profonda astenia e/o una splenomegalia massiva – prosegue Barone – la mielofibrosi può impedire di compiere una serie di attività ‘normali’: camminare, salire le scale, rifare il letto, fare la doccia, cucinare.”

TERAPIE

“L’unica ad oggi potenzialmente in grado di guarire è il trapianto di midollo, ma è riservato a una piccola percentuale di pazienti, in genere sotto i 70 anni, per via della complessità e dei rischi ad esso associati”, dichiara Passamonti. “Momelotinib rientra nella famiglia dei JAK-inibitori. Viene somministrato oralmente 1 volta al giorno e negli studi che hanno portato alla sua approvazione ha dimostrato, rispetto agli altri già utilizzati, di ridurre i sintomi, la splenomegalia e di avere un impatto favorevole sull’anemia, riducendo fino ad azzerare il carico trasfusionale.”