Guardare la sindrome di Sanfilippo sotto una nuova lente, per immaginare nuove strategie terapeutiche per questa grave malattia genetica che colpisce il sistema nervoso e per la quale ad oggi non esistono cure efficaci: è quanto propone su Nature Communications Elvira De Leonibus, ricercatrice dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (TIGEM) di Pozzuoli e dell’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibbc). Detta anche mucopolisaccaridosi di tipo 3A, la sindrome di Sanfilippo è tradizionalmente descritta come una malattia da accumulo lisosomiale, dovuta cioè ad alterazioni del funzionamento dei lisosomi, organuli cellulari deputati alla degradazione di varie molecole. In particolare, la sindrome si ritiene dovuta al mancato smaltimento di uno zucchero, chiamato eparansolfato, che svolge diverse funzioni a livello cerebrale. “A causa della mancata degradazione, lo zucchero si accumula nei lisosomi ed è proprio questo fenomeno a essere considerato responsabile dell’insorgenza nei bambini colpiti di neurodegenerazione e demenza”, spiega De Leonibus. “Per questo motivo, gli approcci terapeutici attualmente in studio (alcuni già in fase clinica) si concentrano sulla correzione del difetto genetico con terapia genica o sulla riduzione dell’eparansolfato in eccesso.”
Tuttavia, il meccanismo di accumulo lisosomiale non sembra in grado da solo di giustificare altri sintomi della malattia che si manifestano più precocemente rispetto alla neurodegenerazione: sintomi comportamentali analoghi a quelli che si possono manifestare in disturbi dello spettro autistico quali iperattività, alterazioni del comportamento sociale, comportamenti stereotipati, e che risultano refrattari sia alla terapia comportamentale sia al trattamento con farmaci antipsicotici come aloperidolo o risperidone che talvolta vengono utilizzati.
Da qui l’idea di cercare possibili meccanismi differenti alla base di questi sintomi: un lavoro durato diversi anni e reso possibile anche grazie al sostegno delle associazioni di pazienti The Society for Mucopolysaccharide Diseases, State College of Florida Foundation, Cure SanFilippo Foundation. Con il suo gruppo di collaboratori, tra i quali Maria De Risi, primo nome dell’articolo, De Leonibus ha lavorato nello specifico con un modello murino della sindrome, scoprendo che in questi animali si registra in una particolare area del cervello (ma non è escluso che possa accadere anche in altre) un livello superiore al normale del neurotrasmettitore dopamina. A sua volta, questo eccesso di dopamina dipende da una proliferazione superiore alla norma dei neuroni che la producono. “I nostri dati suggeriscono come tutto questo non dipenda dall’accumulo di eparansolfato nei lisosomi, ma dal fatto che lo zucchero residuo funzioni in modo alterato, cioè da una disfunzione del suo metabolismo.”
Non solo: i ricercatori hanno scoperto che l’aumento dei neuroni produttori di dopamina si verifica già durante la vita fetale, suggerendo che la sindrome di Sanfilippo possa essere descritta anche come malattia del neurosviluppo. “Questo suggerisce che gli approcci terapeutici attualmente in studio potrebbero avere effetto su alcuni sintomi della malattia, ma non su tutti e in particolare non su quelli comportamentali”, afferma De Leonibus. “Ma attenzione: anche se questo venisse confermato, non significa che non siano approcci di valore. Anzi, avere scoperto questo nuovo meccanismo legato ai sintomi comportamentali significa però che, in parallelo a strategie come la terapia genica, si dovrebbe lavorare ad altri approcci più specifici per questi sintomi.”
“Abbiamo scoperto che le alterazioni del sistema neuronale produttore di dopamina sono accompagnate anche da un importante aumento dei livelli di uno dei recettori della dopamina stessa che non è quello sul quale agiscono farmaci come l’aloperidolo o il risperidone (che infatti non funzionano o hanno effetti collaterali importanti). Utilizzando invece un composto che agisce in modo specifico su questo recettore si osserva una diminuzione delle alterazioni comportamentali.”
Come sempre in questi casi, la strada verso un farmaco di uso clinico è lunga, ma è stata aperta e le possibili ricadute riguardano anche tutte le altre forme di mucopolisaccaridosi nelle quali l’eparansolfato non viene correttamente degradato, come le altre forme di MPS 3 e l’MPS 2, tutte caratterizzate da una fase iniziale di autismo seguito da demenza. Inoltre, potrebbero riguardare anche forme non genetiche di autismo. “Sempre più studi suggeriscono un coinvolgimento del metabolismo dell’eparansolfato nell’insorgenza di disturbi dello spettro autistico non legato a sindromi genetiche: il nostro risultato è un’ulteriore conferma. Ed è anche la conferma di quanto lo studio di malattie genetiche rare possa essere importante anche per condizioni molto più diffuse.”